![]() Elena «lavora con la gente che litiga»: così definisce la mediazione. Dopo diverse esperienze all’estero a contatto con la fragilità sociale, è tornata in Italia perché, dopo tutto, si può viaggiare anche senza lasciare la propria città. Come la musica dub e il jazz, Elena è permeabile a storie, esperienze, stili di vita differenti. Da giovanissima ho fatto le valigie, lasciando famiglia e amici. Volevo scoprire altre popolazioni, altre culture. Volevo soprattutto osservare e ascoltare. Non sono il tipo che si chiude in una cerchia di consolidati rapporti umani, ho bisogno di arricchirmi attraverso nuove relazioni. La mediazione culturale è per me un lavoro e una scelta di vita.
All’estero sono entrata in contatto con il disagio sociale, offrendo il mio contributo all’interno di progettualità europee dedicate a comunità in difficoltà. Desideravo altre esperienze simili, ma sono tornata per stare vicino alla mia famiglia. Una volta in Italia, ho studiato antropologia e ho frequentato diversi corsi di specializzazione. Quando parlo del mio lavoro, lo trovo difficile da definire. Molte persone danno per scontato che coinvolga persone straniere. Invece, la mediazione inizia dentro di noi. Bisogna esercitarla nei conflitti interiori, con i membri della nostra famiglia, con amici, vicini di casa, colleghi. L’attenzione dei media è concentrata sul racconto distorto del conflitto interculturale, ma esso è una minima parte di ciò che succede nelle nostre comunità. Fare mediazione significa trovare una via per giungere ad un maggior benessere per tutti, utilizzando gli ostacoli come punti di partenza per trovare un terreno comune tra le differenze. I conflitti fanno soffrire. Affrontarli è un atto coraggioso, il salto che permette di migliorare la qualità della vita di tutti. Lavoro (anche) in Via Turri perché mi piace. Non credo di dover risolvere alcun problema culturale. I problemi ci sono, come in ogni posto: vanno affrontati tramite l’incontro. Amo i sorrisi delle persone, che ti salutano senza conoscerti; amo ascoltare decine di lingue diverse a pochi passi di distanza; amo far sentire gli abitanti voluti e desiderati. Alcuni la chiamano “ghetto”, come fosse un posto in cui persone con lo stesso background culturale vengono segregate: qui invece vivono più di 70 nazionalità differenti, come potrebbe esserlo? Come può la diversità essere sempre un problema? Reggio Emilia offre molte possibilità a differenti fasce socio-culturali e spero continui così. Abbiamo enormi potenzialità per fondare un modello innovativo di inclusione. La commistione è insita in noi: l’Italia è una giovane nazione, fino a poco fa le regioni usavano lingue (dialetti) differenti. Questo ci ha allenati ad incontrare il diverso. Le diversità – sociali, culturali, territoriali – non vanno escluse. Abbiamo la responsabilità – locale e globale – di costruire insieme comunità e modelli di convivenza capaci di rispettare e valorizzare le specificità, senza annullarle. L’ambiente che riceve ha una enorme responsabilità nel determinare il modo in cui le comunità abitano un territorio e nel fornire le opzioni possibili per una vita migliore. Le persone rispettano e amano il luogo in cui vivono se esso le ha accolte davvero. Via Turri 27 è il luogo fisico in cui proviamo a fare inclusione. Qui il CEIS coopera con gli abitanti per la distribuzione alimentare alle famiglie in stato di necessità; i cittadini si riuniscono per discutere i problemi del quartiere; le comunità straniere si incontrano per parlare delle proprie difficoltà e del futuro; un’associazione organizza mercatini con vestiti a basso prezzo; presto ripartirà un doposcuola con Cooperativa Impossibile; svolgiamo un laboratorio di DJ set per i giovani del quartiere e moltissimo altro. Questo spazio è aperto, è qui per gli abitanti, vogliamo che abbia un senso per loro. L’ascolto è la chiave: un ascolto reale, attento, profondo, non utilitaristico. Infatti, con Cooperativa Impossibile ci è venuta l’idea di una radio di comunità. Le persone hanno bisogno di raccontarsi, condividere, sentirsi accolte. Spesso però la differenza genera paura e chi ha paura non ascolta. Per questo, di solito lo scambio di esperienze è impossibile. La radio può essere lo strumento che raccoglie storie, esperienze, anche paure. Chi ascolta può provare ad avvicinarsi e confrontarsi indirettamente con ciò che non conosce e vincere la paura. Il racconto di vissuti ed emozioni può essere molto potente e generare conseguenze inaspettate per l’integrazione, nel quartiere e altrove. Mediare significa molte, molte cose. È un racchiudere e non un chiudere, è ascoltare e non sentire distrattamente, è empatia, scambio, accettazione. Non è solo negoziare, è fare i conti con i vissuti di tutti, in modo che abbiano uno spazio di legittimità. È sempre difficile da definire, ma meraviglioso.
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Luglio 2022
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