![]() L’anno in cui nasceva Fulvio, il Bologna vinceva lo scudetto. Il suo grande rimpianto è quello di essere stato troppo piccolo per poter festeggiare. Voce gentile, passaporto correggese, ma di orgoglioso sangue montanaro, contadino maturo, la famiglia e la terra sono le ancore della sua vita. E poi c’è la relazione con la comunità: una storia appassionata che dura da tutta una vita. Sono schiavo del mio modo di essere. Da piccolo ero timidissimo, crescendo mi sono aperto e ho iniziato ad intessere amicizie per vincere una chiusura che sentivo non appartenermi. Non mi piacciono le limitazioni, i recinti dettati dell’egoismo e delle insicurezze. Mi piace volare alto con i miei sogni, le mie idee, i miei progetti di vita. E ho svolazzato, passando da un’esperienza all'altra, arricchendo il mio bagaglio di viaggi sulle note di Bob Dylan e di connessioni ispiranti, ma faticando a concretizzare. Gli incontri, soprattutto quelli inaspettati, hanno avuto l’enorme potere di ridefinire il mio percorso, arricchire il mio bagaglio di conoscenze, mettermi in contatto con culture e idee diverse, stimolare la mia curiosità.
Alla domanda fatidica: «Studierai agraria? Intraprenderai il cammino di tuo padre, perito agrario, renderai omaggio alle radici contadine dei nonni?» ho risposto: «No, papà: il mio percorso è il sociale, deve esserlo, lo sento. Giornalista, sociologo, si vedrà, ma devo stare a contatto con la gente». Le persone le ho trovate, anche molto lontano. Ho amato costruire con loro qualcosa di concreto: con i progetti solidali nel Sud del Mondo, insieme ai missionari, negli anni ho potuto svolgere un lavoro appassionante che ha influenzato nel profondo la mia vita. Ho un animo “glocale”, ai miei tempi si diceva così: agire qui per generare una scintilla di mutamento nel mondo. Attraverso i progetti equo-solidali ho potuto contribuire a cambiamenti reali, grazie al mio impegno, alla collaborazione con molte persone in gamba e – perché no? – grazie al mio essere sognatore. Avrei voluto proseguire, ma purtroppo la mia esperienza a contatto con altri Paesi del mondo si è conclusa in modo brusco. Mi sono trovato davanti ad un’altra scelta difficile, come quella di non accontentare un papà che intravede un futuro già scritto per il figlio: mi è mancato il lavoro e ho dovuto ristrutturare la mia vita a 48 anni. Gli incontri, anche questa volta, mi hanno salvato. Mio suocero, agricoltore, aveva poco più di tre ettari di vigna. Voleva abbatterla e vendere la terra: «L’uva la pagano poco e io ormai sono stanco». A mia moglie dispiaceva moltissimo. Non sapevo quasi nulla allora sulla coltivazione della vite, ma era davvero un peccato lasciare andare tutto. Il tempo non mi mancava, ed era qualcosa che è sempre stato dentro di me. Dovevo solo partire e vedere come sarebbe andata. L’ho fatto. Sono contadino part-time da alcuni anni, questo impegno è parte di me e della mia identità. Ho dovuto leggere, informarmi, confrontarmi con altri contadini, ho dovuto essere concreto. Ho imparato a pazientare e rispettare i ritmi della natura. La terra mi ha fatto conoscere i miei limiti, mi ha insegnato a porre un freno alla mia immaginazione svolazzante, a farle mettere radici in un luogo per vederla germogliare. Nel coltivare non posso strafare e devo saper accogliere l’imprevisto. Se riesco a farlo, la terra mi ripaga e mi tiene ancorato alla realtà. Sì, sono tornato alla terra proprio come voleva mio padre. Eppure, non ho mai abbandonato il mio essere animale sociale: per questo mi sono lanciato nel progetto di Cooperativa di Comunità Impossibile. Questo progetto è in linea con la mia strana esperienza di vita: ho sempre voluto fare il giramondo, ma sono felicemente stabile e sposato da 26 anni. Scelte e imprevisti mi hanno portato dove sono ed è proprio dove voglio essere. Impossibile è una cooperativa di comunità, ma non si sviluppa in area rurale: è in città. È in una zona particolare, dalla grandissima ricchezza culturale, ma con una rete sfilacciata di relazioni e difficili comunicazioni. Sono già affezionato a questi luoghi, li vivo e li sento parte della mia quotidianità e mi dispiace che ci siano falsi stereotipi su di essi. Le persone che vivono questi quartieri portano in loro le opportunità, le sfumature, l’immensa variegata ricchezza che una comunità interculturale regala. Sono luoghi da valorizzare da tutti i punti di vista. Questa sfida mi permette di essere, a differenza del passato, molto vicino alle persone e molto a contatto con la comunità. Sono obbligato alla concretezza, finalmente. Oggi mi dico: voglio dare un significato nuovo ai limiti. Non sono necessariamente negativi. Solo se hai una montagna da scavalcare puoi provare ad andare al di là, costruire anche in città delle comunità che sappiano essere in equilibrio tra esigenze dell’uomo e rispetto dell’ambiente. Sono di nuovo astratto? Per fortuna non ho smesso di essere un sognatore.
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Blog ImpossibileUno sguardo proiettato al futuro per sviluppare nuove progettualità condivise Archivio
Luglio 2022
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