![]() Marta, architetta eretica dagli occhi sorridenti, percepisce lo spazio – materia prima della sua formazione – come luogo vivo, habitat di carne e pietra, in cui intessere relazioni. Polveriera la rappresenta a pieno: volumi puliti, colori chiari, voce come brezza leggera che entra dalle grandi porte luminose. Un racconto da leggere – magari durante un viaggio in treno – lasciandosi accompagnare dalla radio e dal suo palinsesto. Come piace a Marta. «Perché non lavori come architetta? È quello che hai studiato, ti piace…». Me lo ricordano le signore che partecipano ai progetti dello Spazio Civico in Polveriera: «Stai con noi anziane signore, quando potresti fare tutt'altro, giovane e capace come sei!».
Il fatto è che le persone più stimolanti che ho conosciuto sono diventate ciò che sono perché hanno scelto di scardinare i binari di una carriera già segnata e correre verso la loro passione, affrontando con coraggio molte insidie. Hanno trasformato paura e incertezza in energia propulsiva e hanno concretizzato meravigliosi progetti. Lavoro da alcuni anni per il Consorzio Oscar Romero, in cui mi occupo di organizzare e gestire le attività dedicate alla cittadinanza del quartiere Mirabello; per Cooperativa Impossibile seguo la comunicazione e progetti di innovazione sociale. Niente a che fare con l’architettura? Non sono d’accordo. Le storie non iniziano sempre dal principio. Neanche la mia. Ero in Francia per un progetto di rigenerazione urbana di spazi verdi di quartiere. Dovevamo costruire delle casse da posizionare come strutture per il verde pubblico e mi sono dovuta ingegnare per compiere l’impresa. Sono architetta, ma la manualità è un mio punto debole! Ho osservato, ho imparato e alla fine abbiamo posizionato le casse che anche io, con legno, viti e avvitatore ho contribuito a creare. Mi sono sentita parte di qualcosa di più grande: quel giardino urbano avrebbe accolto persone differenti ogni giorno, a cui io avevo lasciato un messaggio, la mia idea di spazio e di come speravo che lo vivessero. Ho portato questa soddisfazione con me in Italia, trovando impiego in uno studio. Sentivo però mancarmi qualcosa. Come ritrovare quell'entusiasmo lasciato in Francia? Il mio capo si intestardiva con motivazione per rendere ogni progetto perfetto; io, invece, non mi sentivo mai parte di una storia, neanche della storia di un edificio che pure avevo disegnato. Allora ho capito che nell'equazione mancava una variabile: le persone. Ho scardinato i miei binari. Il quartiere che vorrei è quello dove posso lasciare la mia impronta insieme a quella degli altri. Voglio che la gente contribuisca a strutturare gli spazi, che a loro volta siano accoglienti, flessibili e rinegoziabili. Il quartiere che vorrei è un magma affascinante di persone, suoni, bisogni, ristrutturazioni (materiche ed emotive), che rimane autentico davanti alla variazione continua della sua identità. Nessun luogo è per sempre: ogni persona ha diritto di richiedere soluzioni instabili e trattati ritrattabili di utilizzo di uno spazio, perché chi vive uno spazio lo costruisce, tanto quanto l’architetto che lo progetta e l’impresa che appoggia un mattone sopra all'altro. In Polveriera mi impegno nella creazione di una comunità e vedo come essa modella i luoghi per viverli: la trattativa tra spazio, bisogni ed emozioni è costantemente aperta. Si può dire che sono una community manager? Non so, ma ho finalmente trovato l’entusiasmo e la determinazione nello sviluppo di progetti con e per la cittadinanza e nella rinegoziazione giornaliera della fruizione degli spazi. La gestione di un luogo pensato per la comunità non è lineare, non è facile, e non deve esserlo. Costringe all'ingegno, a porsi domande, a trovare compromessi e soluzioni, deve essere aperta all'ascolto dei bisogni di chi partecipa. Questo porta alla costruzione di una rete forte di relazioni locali e a dare un senso sempre nuovo al luogo che abitiamo, che diventa identitaria, mai monopolizzabile. Amo essere nodo di questa rete relazionale e sapere che ogni progetto e ogni comunità che vi ruota attorno si auto alimentano. La mia figura diventa marginale: garantisco la continuità del progetto, resto a disposizione, ma posso farmi da parte con la consapevolezza, ancora una volta, di aver lasciato un messaggio e un’impronta iniziale nel sogno che si realizza davanti ai miei occhi. Non c’è notizia più bella del sapere che, grazie ai progetti di comunità in cui mi sono spesa, persone prima sconosciute ora passano il Capodanno insieme. Anche questo è progettare. Anche questo è costruire. Allora in questo senso sono architetta, ma di opportunità.
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Blog ImpossibileUno sguardo proiettato al futuro per sviluppare nuove progettualità condivise Archivio
Luglio 2022
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